Mai negoziare per vendetta – Cosa ci insegna la guerra commerciale USA-CINA
Di cosa parliamo
Una delle tecniche di comunicazione persuasiva prevede che nelle fasi iniziali delle negoziazioni si possa “fare un po’ male” per smuovere l’altro dalla sua posizione, ma bisogna stare attenti a non cadere nel sadismo, nel provare piacere per quel dolore che infliggiamo.
Come molti sto seguendo con passione l’evoluzione della negoziazione planetaria sui dazi inaugurata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 2 aprile 2025 (“Liberation Day tariffs”). Lungi da me dire chi avrà la meglio perché ignoro quale grado di autolesionismo o di crudeltà il genere umano potrà dimostrare, ma ne ho tratto delle riflessioni personali e professionali sulla negoziazione che mi dicono:
- Perché l’approccio statunitense – almeno nel breve – non sta funzionando; da quali dinamiche psicologiche nasce questo approccio.
- Perché possiamo dire che queste dinamiche siano disfunzionali in una negoziazione.
- Quale strada percorrere quando al lavoro o negli affari ci troviamo a negoziare.
Parto da un presupposto, ovvio ma importante: la negoziazione avviene tra due o più parti con percezioni, bisogni, motivazioni diverse che cercano di raggiungere un accordo di interesse reciproco. Ecco, soffermiamoci sulla parola “reciproco”: implica che l’interesse altrui può essere diverso dal nostro, o addirittura in contrasto, ma comunque legittimo. Questa premessa a sua volta implica – da un punto di vista pratico, non solo etico – che
Il mio scopo della negoziazione non può essere la negazione del tuo interesse perché questo porterebbe non solo al conflitto, ma neppure la soddisfazione dei miei bisogni più profondi.
Probabilmente, queste forme di piacere o sollievo hanno avuto una funzione evolutiva: farci sopravvivere in ambienti sociali competitivi. E forse questi ambienti, pur vivendo nell’epoca dell’abbondanza, sono tornati, almeno a livello psicologico.
Ma che effetto fanno alla nostra convivenza di interessi, alle nostre negoziazioni?
Cosa ci spinge davvero?
Molto del successo elettorale di Trump fa leva su questa narrazione: “Una volta eravamo forti e prosperavamo; poi sono arrivati i liberal, ci hanno resi mosci, senza midollo; tutto il resto del mondo ha approfittato della nostra debolezza e oggi abbiamo una bilancia commerciale negativa”. Non mi metto a valutare nel merito questa narrazione.
Proviamo a uscire dall’aspetto politico ed entriamo in quello psicologico di una negoziazione: che effetto ha entrare in una negoziazione con un sentimento di rivalsa per un’ingiustizia subita, vera o meno che sia quell’ingiustizia?
Di fatto, quando lo facciamo, spostiamo la responsabilità della nostra condizione su qualcun altro: “È lui o lei che mi ha fatto quello e, allora, io sono una vittima e mi è permesso di vendicarmi” (spoiler: invece, no, mi dispiace).
In tanti manuali di auto-aiuto o di business, si raccomanda di entrare in empatia con l’altro, non solo parlando con un collaboratore, ma anche quando parliamo con un cliente, un fornitore, un concorrente e – addirittura – con un rapitore terrorista, come spiega l’ex negoziatore internazionale di ostaggi per l’FBI, Chris Voss, nel suo libro Don’t split the difference – Mai dividere la differenza.
Sull’empatia non ci piove. Le emozioni determinano le decisioni molto più che gli aspetti razionali nella stragrande maggioranza dei casi.
Ma quello che mi sento di dire, alla luce dell’esperienza della negoziazione USA vs Resto del Mondo, è che probabilmente la prima persona con cui mettersi a contatto delle emozioni siamo noi stessi. Che cosa ci muove? Perché ci muove? La nostra motivazione è allineata ai nostri valori, alle nostre convinzioni di fondo?
E se fosse solo vendetta o rivalsa? Dovremmo essere molto consapevoli che dopo averla ottenuta – e chissà a quale costo – ci ritroveremo ancora lì, da soli, ancora con noi stessi. E a quel punto dovremmo trovarci uno nuovo “nemico”, che si chiami Europa, Cina, liberal…

Se vogliamo trarre qualche beneficio o spunto di riflessione da questo articolo, dobbiamo rimuovere il pensiero che ci fa sentire moralmente superiori a Trump e al suo staff: “Io non sono così accecato dall’odio, non sono così arrogante, non sono così violento”. Interroghiamoci invece sui nostri sentimenti. Pensiamo a quel cliente che ci ha fatto lavorare male a quell’altro che ci ha pagato male, dopo mille solleciti e continue contestazioni delle fatture.
Pensiamo a quel fornitore che ci ha fatto penare coi suoi ritardi e le sue non conformità. A quel collaboratore che ha bucato metà degli obiettivi dell’anno scorso e ora è lì a negoziare quelli nuovi.
Ecco in quei momenti, su quei tavoli, potreste essere toccati dalla voglia di rivalsa. Non sto dicendo che non dobbiate ottenere migliori condizioni nella nuova trattativa: quelli sono i vostri bisogni e interessi. Sto dicendo di non cercare vendetta per quello che è stato. Il passato è andato, lasciatelo andare. E quindi, se vi monta su la rabbia, fate un respiro e lasciatela andare.
Se il presidente e il suo staff avessero fatto questo lavoro psicologico, avrebbero evitato contromisure cinesi che al momento sembrano molto efficaci e hanno fatto fare agli USA molti passi indietro, fino a perdere molta credibilità: le domande che avrebbero potuto rivolgere a loro stessi avrebbero potuto essere:
- Vogliamo aumentare o ridurre i consumi dei concittadini USA?
- Vogliamo ridurre i tassi pagati sul debito pubblico?
- Voglio mantenere i posti di lavoro e la salute delle aziende americane?
- O vogliamo solo vendetta? Solo rivalsa? Solo tornare a un mondo passato che però piaceva?
Gli effetti a breve dei dazi erano lì ad aspettare e gli economisti, anche di diverso orientamento, erano tutti concordi nelle previsioni.
Alla negoziazione il conflitto non piace. Né tanto meno le pistole sul tavolo. Soprattutto se da quel tavolo la controparte può elegantemente alzarsi e andarsene
Nel libro Plaintiff in Chief, l’avvocato di New York James D. Zirin ha raccontato il presidente degli Stati Uniti attraverso le 3.500 cause che lo hanno visto querelante o querelato.
È evidentemente abituato a stare nel conflitto, ad avere un modus operandi per il quale “faccio di testa mia e poi ci vediamo in tribunale”.
Negoziare una vendita o un acquisto assomiglia molto di più a negoziare una pace militare o commerciale che a una disputa in tribunale. In tutti quei casi (vendita, pace, etc.) non si tratta di “transare” per un danno fatto o subito, si tratta di trovare un modo di stare insieme, di collaborare, di farsi una nuova promessa. E se due non vanno d’accordo, non ci si può appellare a nessuno che li metta d’accordo per forza…
Il rischio è di trovarsi da soli col cerino in mano.
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Che cosa ho imparato leggendo l’attualità con le mie lenti e
le mie competenze?
Mai iniziare una negoziazione con sentimenti di rivalsa e soprattutto, prima di iniziare una negoziazione, va bene l’empatia verso la controparte, ma prima entriamo in contatto con i nostri sentimenti e chiediamoci “che cosa vuoi veramente?”.

Che cosa fare prima di entrare in una negoziazione
Prima di avviare una negoziazione ogni sales dovrebbe dedicare del tempo a una preparazione strategica.
Come abbiamo visto analizzando gli errori della negoziazione USA-Cina, liberarsi dal desiderio di rivalsa e creare valore reciproco sono le condizioni essenziali per il successo.
Ecco alcune azioni fondamentali da intraprendere prima di avviare una negoziazione:
Ricordiamocelo: i negoziatori eccellenti non puntano a “vincere” sulla controparte ma a costruire accordi solidi e duraturi che creino le fondamenta per future collaborazioni proficue.
Articolo a cura di:
Alessandro Valdina
Principal
Nel suo percorso di studi universitari ci sono Comunicazione, Finanza e Analisi del Comportamento Applicata. Le sue aree di intervento coprono Change Management, Strategy Deployment, Lean Office, Performance Management, Sviluppo della Leadership e Tecnologie di Training.
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